Se lo chiede Tahmima Anam nel suo ultimo articolo per Vox.
C’è una nuova incredibile tendenza nel settore dell’AI, ciò che l’autrice definisce “hack della morte“, fantascienza che diviene realtà.
Microsoft ha in passato brevettato un chatbot conversazionale modellato su una persona specifica, come “un’entità passata o presente… come un amico, un parente, un conoscente, una celebrità, un personaggio di fantasia, una figura storica”. In altre parole, grazie alla tecnologia di Microsoft, sembrava che potessimo parlare con i morti, o almeno con un loro facsimile.
In seguito, Microsoft ha annunciato che non ci sarebbero stati piani per trasformare il brevetto in un prodotto, e il suo stesso direttore generale dei programmi di intelligenza artificiale ha ammesso che il concetto era “inquietante”. Tuttavia, due anni dopo, una startup coreana chiamata Deep Brain AI ha lanciato un prodotto chiamato Re;Memory, che mira a fare più o meno la stessa cosa: creare una simulazione di una persona cara morta.
L’idea sembra essere che una breve conversazione a senso unico con un parente morto – come un messaggio dato tramite un medium spiritico – porti conforto ai vivi. Fornirà l’opportunità di un addio, forse una sorta di conclusione di una conversazione durata tutta la vita e interrotta bruscamente, come tutte le conversazioni di questo tipo, dalla morte.
Non credo che Re;Memory verrà adottato universalmente – sembra troppo inquietante e, in un certo senso, piuttosto falso – ma le innovazioni nella realtà virtuale hanno normalizzato il concetto di avatar, non come qualcosa di simulato, ma come una rappresentazione digitalizzata di sé.
Secondo l’autrice, le tecnologie avanzate stanno cambiando la nostra percezione della realtà e delle relazioni umane, ponendo domande sul confine tra il mondo digitale e il mondo reale. Il futuro potrebbe essere molto diverso da quello che conosciamo oggi.
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